Intervista al nostro associato Antonio, affetto da FSHD, ed a suo padre; per rispondere a quanti ancora credono che avere una malattia degenerativa possa, in qualche modo, essere d’ostacolo al diventare genitori e per dare un supporto a chi si trova nella difficile situazione di accudire un figlio malato.
Intervista ad Antonio, padre di Elena
-Cosa vuol dire essere papà?
Essere padre, a mio giudizio, è la cosa più bella, straordinaria ed importante della vita di un uomo. Non me ne voglia chi non è genitore, ma penso davvero che si tratti di qualcosa che possa essere pienamente compreso solo da chi ha vissuto in prima persona questa esperienza, che rivoluziona radicalmente ogni aspetto della propria vita, ridefinendo ogni obiettivo ed ogni priorità in funzione solo dell’incondizionato amore che nasce e si sviluppa per il proprio figlio. Quando si prende in braccio per la prima volta il proprio bebè si comprende, quasi come una folgorazione, che da quell’istante, e per sempre, sarà sempre lui al centro di tutto. Essere padre è anche una grande responsabilità e, da questo punto di vista, un “lavoro” a tempo pieno ed indeterminato, impegnativo e complicato, con difficoltà ogni giorno differenti, rispetto alle quali può capitare anche di sentirsi inadeguati e non all’altezza; ma per me, è questo il “lavoro” più bello del mondo, ed è sufficiente un sorriso, un abbraccio o un bacio di mia figlia per consolidare in me questa certezza, giorno dopo giorno.
-Quali sono/ sono state le tue paure?
Oltre alle paure tipiche del diventare padre di cui ho fatto prima qualche cenno, nel mio caso di persona affetta da distrofia Facio-Scapolo-Omerale ce ne sono, ovviamente, tante altre legate alla malattia, che riguardano te stesso ed i figli.
Mi limito alle due più importanti: la paura di mettere al mondo un figlio che ha il 50% di possibilità di essere affetto dalla malattia e la paura di non essere in grado “fisicamente di fare” il padre come invece è normalmente richiesto, particolarmente durante l’infanzia. Rispetto a queste grandi e, per certi versi, devastanti paure, ai dubbi ed alle domande che ne sono diretta conseguenza non credo che esista una risposta “corretta”.
Non voglio entrare nel merito della questione etica e morale (per alcuni certamente anche religiosa), ma ci tengo ad evidenziare che non si tratta solo del proprio “personale” punto di vista, perché questo tipo di paure possono trovare un adeguato riscontro e supporto solo all’interno dell’amore della famiglia ed, in particolare, con una fortissima intesa ed affinità di coppia.
-Quali sono le tue speranze?
Le mie speranze ritengo che siano quelle di ogni padre, che si augura un futuro il più possibile sereno e prosperoso per i propri figli, anche se, probabilmente, queste speranze dovranno essere declinate anche attraverso strade differenti dal comune.
In quest’ottica, è evidente che anche le condizioni di salute giochino un ruolo molto importante e, per questo, certamente la speranza più grande è quella che la ricerca scientifica possa trovare nel più breve tempo possibile se non una vera e propria terapia, almeno un sistema per arrestare o rallentare l’inesorabile progredire della malattia.
-Un messaggio per chi si trova nella tua stessa situazione?
La vita è un dono straordinario e di incommensurabile valore e, proprio per questo, essere padre, pur essendo una grande responsabilità, è una esperienza meravigliosa che, tra l’altro, ti completa come persona e ti migliora come uomo. Nessuno, a mio giudizio, può fondatamente sentirsi “pronto” a diventare padre, a maggior ragione chi è affetto da una grave malattia, ma, se ci sono le condizioni, mi sentirei di dire a tutti coloro che si trovano in situazioni simili alla mia di non lasciarsi sconfiggere dalla paura e di lasciare un po’ di spazio a quel pizzico di “istintiva e sana incoscienza” (qualcuno preferirebbe definirlo coraggio) che, ogni tanto, nella vita è bene seguire…
Prendere decisioni è spesso difficile, ma anche il NON decidere è una scelta ben precisa, che affidiamo al tempo piuttosto che a noi stessi, anche se non sempre ne abbiamo chiara percezione.
Intervista a Vincenzo, padre di Antonio
-Qual è la paura più grande nell’avere un figlio con la FSHD?
La paura più grande è quella di non poterlo aiutare ed assistere in futuro, quando, presumibilmente, ne avrà più bisogno, nella consapevolezza che, con l’invecchiamento, si ridurranno le mie capacità di poterlo supportare.
-Il giorno in cui avete avuto la diagnosi cosa ha provato?
Ho provato un assoluto rifiuto della notizia, con la contestuale attivazione di ogni possibile ricerca di una spiegazione alternativa, anche alla luce del fatto che la vita di mio figlio, fino a quel momento (aveva 16 anni), non era mai stata limitata dal punto di vista fisico (praticava diverse attività sportive) per cui mi sembrava una diagnosi incredibile ed impossibile.
-Oggi rispetto a ieri la FSHD fa più o meno paura?
Fa la stessa paura di ieri, anche se, con il tempo, si impara ad accettare il decorso della malattia come se fosse un processo di invecchiamento più rapido e precoce.
Quello che fa sempre molta paura è la mancanza di ogni conoscenza sui tempi di progressione, ragion per cui si vive nella speranza che la malattia si arresti o rallenti il più possibile o che, finalmente, giunga qualche buona notizia dalla ricerca scientifica in merito a possibili terapie.